Indro Montanelli: ricordando una bella persona
Indro Montanelli
Ricordando una bella persona
Una riflessione già comparsa sul vecchio blog e che qualche lettore ricorderà ma che mi piace riproporre nell’anniversario della scomparsa del grande giornalista.
Noi l’Italia la vediamo realisticamente qual è:
non un vivaio di poeti, di santi e di navigatori,
ma una mantenuta costosa e scostumata:
ma è la sola che riesce a riscaldare il nostro letto e
a farci sentire uomini, anche se cornuti.
Indro Montanelli
Sono passati anni e sembra ieri.
Una borghesia che tradiva il suo esponente migliore, che lo lasciava solo, attratta dalle sirene vincenti del presidente del Milan. E noi ragazzi, per lo più provenienti dalla gioventù liberale, che non capivamo, che ci vergognavamo per quello che accadeva, per gli industriali che temevano di investire due lire nella Voce per paura di dispiacere al potente di turno, mentre noi avevamo rinunciato ad offerte e stipendi per restare duri e puri. Rara eccezione a memoria Marzotto che però si affrettò a precisare che era a titolo personale e l’azienda doveva restarne fuori.
Ricordo il tentativo di trasformare Università liberale in Forza Bocconi, tentativo fallito, per noi la parola liberale restava sacra. L’umiliazione di vedere entrare in via Dante (sede della Voce) gli uomini delle coop rosse che, unici, si erano offerti di finanziare il giornale.
E noi fuori, ai lati, con l’unica soddisfazione di vederli passare sotto le forche caudine degli sguardi di questi ragazzoti che non tradivano, che non si piegavano, per ricordargli che la borghesia non era morta, umiliata forse, ma qualcosa resisteva.
Ricordo gli imbarazzi, il coraggio di quei giornalisti che rimasti al giornale (alla Voce non c’era posto per tutti) si presentavano al lavoro a Il Giornale con La Voce sotto braccio sfidando la proprietà.
Noi che si andava in edicola a comprare 5 copie per volta per pagare il nostro debito di riconoscenza verso una persona per bene.
Certo, c’erano eccessi, non tutto era condivisibile nei toni, ma noi sentivamo il dovere di esserci ed aspettavamo con impazienza le bellissime prime pagine di Vittorio Corona, padre del proprietario dell’agenzia fotografica Corona’s, Fabrizio.
Son tanti i ricordi, i pensieri che affiorano, ma soprattutto grazie per averci fatto combattere una bella battaglia, una di quelle che val la pena di combattere anche se si perdono.
Avevi ragione Direttore: “Della nostra linea non abbiamo da cambiare una virgola.”
L’ultimo articolo di Indro Montanelli su Il Giornale.
12 gennaio 1994. Questo è l’ultimo articolo che compare a mia firma sul giornale da me fondato e diretto per vent’anni. Per vent’anni esso è stato – i miei compagni di lavoro possono testimoniarlo – la mia passione, il mio orgoglio, il mio tormento, la mia vita. Ma ciò che provo a lasciarlo riguarda solo me: i toni patetici non sono nelle mie corde e nulla mi riesce più insopportabile del piagnisteo. Sento però di dovere una spiegazione ai lettori coi quali mi ero impegnato a restare al mio posto “finchè morte non sopravvenga” come dicevano i boia inglesi nell’annodare la corda al collo degl’impiccandi. Sia chiara una cosa: nessuno mi ha scacciato.
Sono io che mi ritiro per una dei quelle situazioni d’incompatibilità di cui i lettori avranno preso atto dallo scambio di lettere, da noi pubblicate ieri, fra me e l’editore. Di questo editore, ne ho conosciuti due. Uno è stato l’amico che mi venne incontro nel momento in cui tutti mi voltavano le spalle: che non si è mai avvalso di questo titolo di credito per limitare la mia indipendenza, che ha sempre mostrato nei miei riguardi un rispetto confinante e talvolta sconfinante nella deferenza (tutte cose che era superfluo da parte sua ricordarmi perchè non ho mai perso occasione di farlo io stesso). Eppoi ne ho conosciuto un altro: quello che, trasformatosi in capo-partito, ha cercato di ridurre il Giornale ad organo di questo partito suggerendogli non soltanto le posizioni da prendere – e sulle quali non c’erano in fondo grosse divergenze – ma perfino il linguaggio da usare, e che, a lasciarlo fare, avrebbe finito per impormi anche la “divisa”del suo partito, il suo look.
Tralascio le rappresaglie contro la mia renitenza all’arruolamento, come gli attacchi dei suoi Grisi televisivi alla mia persona. Ma non posso sorvolare sull’ultima e più grave provocazione: la promessa alla redazione, alla mia redazione, di cospicui benefici se si fosse adeguata ai suoi gusti e desideri, cioè se si fosse ribellata a quelli miei.
A questo punto non avevo più scelta. O rassegnarmi a diventare il megafono di Berlusconi. O andarmene. Me ne vado. Ma non senza avvertire i lettori che manterrò l’impegno preso con loro. Fra poche settimane essi riavranno il loro giornale, fatto dagli stessi uomini del Giornale, illustrato dalle stesse firme e nutrito delle stesse idee del Giornale. Con qualche difetto – speriamo – in meno, ma una cosa in più, di cui l’esperienza mi ha dimostrato l’assoluta necessità: un assetto azionario che mi garantisca l’incondizionata indipendenza. Anche i lettori potranno parteciparvi (e mi auguro che siano tanti) sia pure con quote piccole o minime.
Della nostra “linea” non abbiamo da cambiare una virgola. Nemmeno i nostri amici politici si facciano illusioni. Noi potremo appoggiare l’uno o l’altro a seconda che si schierino sulle nostre posizioni liberaldemocratiche, ma mai noi su quelle loro, e tanto meno a scatola chiusa. Nelle nostre pagine si respirerà, come sempre, il più grande rispetto per le Istituzioni, ma mai l’odore del Palazzo, da chiunque abitato. Quanto a Berlusconi, nessun rancore ci farà velo. Gli abbiamo detto – e confermiamo – che il suo massiccio e rumoroso intervento nell’arena elettorale non gioverà, secondo noi, nè alla causa per la quale egli pensa di battersi, e di cui temiamo che frazionerà ancora di più le forze, nè per i suoi propri interessi. I fatti diranno se avevamo ragione o torto. Se avevamo torto, lo riconosceremo lealmente. Se avevamo ragione, fingeremo di essercene dimenticati. A presto dunque, cari lettori.
Anche a costo di ridurlo, per i primi numeri, a poche pagine, riavrete il nostro e vostro giornale. Si chiamerà La Voce. In ricordo non di quella di Sinatra. Ma di quella del mio vecchio maestro – maestro soprattutto di libertà e indipendenza – Prezzolini.
Indro Montanelli
Ho adorato Montanelli, ma un appntuo ora lo vorrei fare.Lavorare di pif9 va bene, ma con criterio. L’Italia ha reagito alle crisi anni 70 divenendo una depandance industriale per nazioni pif9 ricche: in pratica, vendiamo il nostro lavoro in cambio di combustibili. Abbiamo certamente preso a lavorare di pif9, abbiamo perso garanzie sul lavoro e nella vita, abbiamo visto aumentare la poverte0 e calare il monte paghe dei salariati, ma tutto questo lo abbiamo fatto solamente per continuare a stendere catrame e riempire serbatoi. Ridicolo.Questo modo di lavorare di pif9 ci porta alla rovina: dobbiamo imparare a reinvestire il nostro lavoro in azioni che ci rendano meno dipendenti dagli altri.Altrimenti questa nazione non potre0 far altro che crollare assieme ai suoi inaffidabili fornitori di antico carbonio. Indipendentemente da quante ore avremo lavorato e da quanto saremo divenuti poveri e parsimoniosi.fausto